Prosa
ANTROPOLAROID

Uno spettacolo che arriva diritto al cuore

Uno spettacolo che arriva diritto al cuore

Uno spettacolo che arriva diritto al cuore dello spettatore, ma arriva anche fino alle viscere, questo “Antropolaroid” di Tindaro Granata, che non a caso ha già vinto nel 2011 il Premio della critica teatrale.

Uno spettacolo che arriva diritto al cuore dello spettatore, ma arriva anche fino alle viscere, questo “Antropolaroid” di Tindaro Granata, e che non a caso ha già vinto nel 2011 il Premio della critica teatrale 2011 e nel 2012 il Premio Alessandro Fersen.

Lo stesso Tindaro Granata, giovane attore di talento, grande sensibilità artistica, un “animale da palcoscenico” che lavora molto bene con la voce e il corpo, mix non così facile da trovare ancora in molti attori contemporanei che trascurano troppo spesso questo aspetto, ha un percorso artistico molto particolare. Non ha infatti seguito la tradizionale strada dell’Accademia, avendo iniziato nel 2002 con un “Pulcinella”  in versione teatrale con la regia di Maurizio Scaparro a fianco di  Massimo Ranieri,  per poi lavorare con Roberto Guicciardini, Cristina Pezzoli, Carmelo Rifici e molti altri fino a ottenere proprio quest’anno il “Premio Melato” come attore emergente.

Non solo attore dunque, ma anche autore e regista di se stesso in questo “Antropolaroid” che potrebbe essere definito un monologo a quattordici voci ( tanti sono infatti i ruoli recitati in scena) nel quale ripercorre la storia della sua famiglia siciliana, interpretando i personaggi più importanti della sua vita, i nonni, i genitori, gli amici.

Tante foto istantanee, scattate una dopo l’altra in un arco di tempo che dagli anni Venti arriva ai nostri giorni,  fissando momenti tragici come la malattia, la morte, la guerra, la povertà, la mafia, passando dalla smorfia di dolore alla leggerezza del sorriso. Il comico e il tragico viaggiano in questa pièce parallelamente insieme sui binari della vita, attraverso le diverse sfumature della voce dell’attore il quale passa con disinvoltura da quella roca e mascolina del nonno o del padre, a quella femminile della madre o della zia zoppa che insegna a ballare il valzer ad un parente colpito dalla meninigite. Tutto questo senza cadere mai nella caricatura, ma seguendo sempre un gusto squisitamente teatrale e quasi pirandelliano.

Tindaro Granata entra ed esce fuori dai personaggi, guardandosi ogni tanto dall’esterno, come uno scrittore che inventa i suoi personaggi, o un regista che dirige i suoi attori, tiene il controllo di ciò che succede sul palcoscenico dando vita ad una messinscena dove la finzione è solo un mezzo per raccontare fatti realmente accaduti. Come un bimbo si addormenta sentendosi raccontare favole anche spaventose, l'attore stesso diventa quel bambino al quale i nonni raccontavano le tragiche storie della sua famiglia che ha dovuto affrontare i soprusi e le minacce di una potentissima famiglia mafiosa del messinese come quella dei Badalamenti, che impedirà fino all’ultimo l’ascesa sociale dei Granata.

Si parte dal settembre 1925 quando il bisnonno Francesco Granata si impicca dopo aver scoperto di avere un tumore, fino ad arrivare  al giorno in cui Tindaro parte per Roma per inseguire il suo sogno di fare l’attore per staccarsi da una realtà nella quale non si riconosce più. Quello stesso giorno il suo amico Tino Badalamenti si impiccherà dopo essere partito su una nave della marina militare.
Una storia, questa di “Antropolaroid” che vuole far rivivere la tradizione del “cunto” ovvero del racconto orale, delle storie tramandate di padre in figlio, dando vita ad una sorta di gramlot nel quale il siciliano antico si mescola a quello contemporaneo e persino con lo spagnolo, il greco e il francese, dando vita ad un nuovo linguaggio che si serve dell’espressione teatrale per trovare una nuova forma di comunicazione con il pubblico.
La scena è nuda, da “teatro povero”, al centro solo una sedia coperta da un lenzuolo bianco che di volta in volta diventerà mantello, letto, sudario, vestito, bandiera da sventolare. La storia è molto personale, ripercorre gli episodi più importanti della sua vita e quella sua famiglia, diventa una sorta di catarsi teatrale nella quale, attraverso l’autoanalisi e l’analisi di gruppo dei personaggi che via, via interpreta, gli episodi tragici si mescolano a quelli più comici. L’attore diventa il nonno che decide di togliersi la vita impiccandosi, dopo aver saputo di avere un tumore, fa prima la parte del dottore che glielo diagnostica e poi quella del parente, intercalando il momento della dolorosa comunicazione della malattia con battute dialettali.

Passa quindi alla scena in cui la nonna, rimasta vedova giovane, invece di piangere sulla tomba del marito ci sputa sopra per la rabbia di essere stata abbandonata, mentre fa finta di lucidarla quando delle conoscenti la vedono china a parlare con la foto del morto. Oppure, facendo uso di un semplice maglioncino che ogni tanto si mette in testa come uno scialle, passa a interpretare il ruolo della nonna che lo culla tra le braccia appena nato, riempiendolo di baci e di affettuosi epiteti.

Luci e ombre di una vita trascorsa sotto il cielo di Sicilia, e nelle tenebre di una mafia che porta il buio nella vita di tutti, impedendo di realizzare i propri sogni, facendo scontare a caro prezzo la possibilità di ottenere un lavoro, anche molto umile, senza dover sottostare ad un destino buio che Tindaro riuscirà ad illuminare con la luce del suo fare teatro e diventare attore. Un bravo attore con tante cose da dire ancora e una lunga e luminosa strada ancora da percorrere.

Visto il 29-10-2013
al Fontana di Milano (MI)